Editoria e ADV: un modello non sostenibile



Questo post ha piu' di sei mesi. Le informazioni contenute potrebbero non essere aggiornate: ultima modifica: 28.05.12

Durante il festival del giornalismo a Perugia ho ascoltato alcuni panel particolarmente interessanti e parlato con alcuni amici che comprendono a fondo il mondo dell’editoria. Una delle riflessioni sulle quali mi sono maggiormente soffermato a seguito di questi incontri è che l’editoria non può utilizzare modelli di business basati su ADV perché non sono più sostenibili.

In questi anni tutte le testate (ma vale anche per gli editori televisivi) hanno visto una forte riduzione nei ricavi legati alla raccolta pubblicitaria ed è una voce che continua a diminuire. Il crollo degli investimenti pubblicitari è dovuto alla crisi economica o ci sono altri fattori da tenere in considerazione?

La crisi economica ha dato sicuramente un contributo, ma non ha creato un fenomeno, lo ha semplicemente accelerato. A fronte di una riduzione dei propri ricavi le aziende hanno iniziato a valutare in maniera molto più attenta le proprie attività. È un comportamento particolarmente noto che possiamo vedere nella vita di tutti i giorni: con 50€ nel portafoglio tendiamo a concederci qualche acquisto superfluo, quando ne abbiamo solo 10€ valutiamo attentamente le nostre scelte (“Come decidiamo” di Jonah Leher cap.3 paragrafo 3). A questo punto, davanti a una riduzione di budget, diventa necessario capire se l’investimento pubblicitario è una scelta valida.

Non è un segreto che valutare i risultati di una campagna sia sempre stato complesso: “Io so che almeno metà del mio budget pubblicitario va in fumo. Ma mi chiedo quale metà?” scrive Rosser Reeves. Dopotutto stiamo parlando di una disciplina giovane che si è evoluta per prove ed errori e i cui modelli si sono basati su speculazioni ed abduzioni più che sull’osservazione e sulla determinazione delle cause reali. Questo non deve sorprendere: dopotutto nel mondo analogico avere dati certi sull’esposizione e sugli effetti di questa esposizione era quasi del tutto impossibile.

Quante copie del giornale sono state vendute? Quante persone hanno visto il mio annuncio pubblicitario? I ricavi del q1 dipendono dalla pubblicità o da altri fattori? Tre domande che non potevano (e in molti casi non possono tutt’ora) trovare risposta. Con l’avvento del digitale molti numeri sono diventati disponibili: views, utenti unici, utenti di ritorno, click, CTR, e altre metriche sono apparse. Sono diventate disponibili ma agli investitori sono sembrate basse rispetto a quelle che si potevano ottenere sulla carta o in televisione. Probabilmente non c’erano abbastanza utenti e il mercato non era maturo.

A mio avviso la differenza numerica è stata liquidata con troppa facilità: non erano valori troppo bassi, erano semplicemente reali. In passato la pubblicità ragionava per stime e opportunità, adesso con dei dati certi, si è iniziato forse a prendere consapevolezza che i numeri non sono estremamente elevati: le persone non guardano le pubblicità e difficilmente cliccano come testimoniato dal New York Times (merita una lettura il paragrafo di Follo). Se fossi un investitore non sarei particolarmente ansioso di investire in questa attività, soprattutto dopo le parole di CEO PG.

Alcuni mesi fa infatti, Robert McDonald in un intervista ha detto chiaramente che non è più possibile fare investimenti che non portino a risultati concreti. A questo punto inizia il vero problema: dove posso fare investimenti pubblicitari che portino a risultati concreti, misurabili e mi permettano di ottimizzare l’attività? Sui Social Media.

Non deve quindi sorprendere la crescita pubblicitaria di Facebook (anche se ha registrato un lieve calo*) e gli articoli che iniziano ad accennare al fatto che forse forse è la piattaforma di Zuckerberg ad essere una minaccia per gli editori. Dopotutto su Facebook posso decidere in maniera quasi chirurgica quali persone dovranno vedere la mia pubblicità: età, sesso, interessi, situazione sentimentale…

La profilazione dell’utente è quello che rende i Social Network particolarmente appetibili: le persone inseriscono i propri dati (in alcuni casi ignorando che stanno rinunciando a una porzione della loro riservatezza) e permettono alla piattaforma di rendere più efficace le pubblicità. Da questo punto di vista Facebook rappresenta l’esempio più riuscito dal momento che il numero di informazioni, status, condivisioni e mi piace che gli utenti inseriscono è gigantesco. Ma esiste un altro giocatore, magari anche più interessante, ad assediare il modello basato sull’adv degli editori? Certamente: la grande G.

Google domina le ricerche e soprattutto quelle fatte in mobilità: Facebook ha “vinto” la guerra dei Social, ma il colosso di Mountain View domina altri settori. Nei prossimi anni il traffico dati fatto da telefonini supererà quello dei computer fissi: quando faccio una search sull’iphone qual è il motore di ricerca? Quando uso Android (che sta avendo una diffusione straordinario) qual è il motore di ricerca?. Quello che mancava al colosso di Mountain View per diventare un attore interessante erano le informazioni sugli utenti: Google+ ha risolto questo problema permettendo di raccogliere informazioni e targettizzare meglio l’offerta pubblicitaria (è più interessante quindi vedere gli utenti unici che gli utenti attivi). Un ecosistema fatto da gmail, google+ e il dominio sulle ricerche degli utenti rende Google la seconda minaccia al modello dell’adv (e la prima a mio avviso in termini di efficacia).

Da un lato abbiamo quindi Facebook che permette in maniera chirurgica di mirare le pubblicità sulla piattaforma sulla quale le persone spendono la maggior parte del tempo, dall’altra Google domina sulle ricerche fisse e soprattutto da mobile. Dal punto di vista dell’influenza sull’acquisto (un argomento complesso che richiede una trattazione a parte) possiamo ipotizzare che Google abbia un maggior influsso di Facebook nella determinazione dello ZMOT (lo Zero Moment of Truth, il momento dell’acquisto). Dopotutto le persone vanno su Google alla ricerca di informazioni, magari anche in previsione di un acquisto mentre su Facebook vanno a stabilire delle relazioni (questo può spiegare in parte i peggiori risultati dell’adv su Facebook). Ma perché gli editori non sono particolarmente interessanti per chi vuole investire in advertising?

Un giornale cartaceo ha una comunità di lettori mediamente profilata ma non posso sapere con certezza se le persone hanno visto la pagina contenente la pubblicità. Su un prodotto editoriale digitale posso avere informazioni sui “numeri” ma in ogni caso il livello di profilazione del navigatore non può competere con quello di altre piattaforme gratuite dove gli utenti “pagano” con i propri dati.

Il modello su ADV per un prodotto editoriale e per molte altre piattaforme diventa quindi insostenibile: ci saranno in ogni caso soggetti pronti ad investire su prodotti editoriali (soprattutto visto che all’aumento della richiesta aumenteranno i costi dell’ADV sui Social Media) ma ovviamente non è possibile disegnare un business model che abbia come fonte principali di revenue la raccolta pubblicitaria.

Le soluzioni (forse) probabilmente esistono, non sono semplici e richiedono strategie di lungo periodo (nel 2010 pensavo a modelli flessibili: sono ancora convinto che possa essere una strada e che alla fine anche il paywall paghi). Sicuramente vedremo delle estinzioni, come durante tutte le grandi ere, (su questo tema il CEO di Metro ha fatto delle previsioni non particolarmente rosee, stimando la scomparsa di più della metà dei giornali nei prossimi anni). Come nel Risk Management conoscere il problema è il primo passo per affrontare i rischi e cogliere le opportunità.

Featured image: Photo by wili_hybrid – http://flic.kr/p/jm9BZ

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